Creativa, stagionale e saporita: l’imperdibile cucina di Antonio D’Angelo da Nobu Milano

Intervista ad Antonio D’Angelo, Executive Chef di Nobu Milano

Inaugurato nel 2000 e rinnovato nel design e nello stile nel 2014, Nobu Milano si è confermato negli anni indirizzo di riferimento nel panorama italiano della ristorazione, unendo la peculiarità della cucina dello Chef Nobuyuki Matsuhisa alla qualità del marchio Armani. Da sempre si contraddistingue per l’ambiente raffinato e l’atmosfera internazionale, diventando il luogo ideale sia per pranzo sia per cena, o anche per chi sceglie di accomodarsi al bancone bar del piano terra per un cocktail o un aperitivo. Nel cuore di Milano, a pochi passi da Via Manzoni e dal quadrilatero della moda, è il punto di incontro tra i piaceri sottili del gourmet e una mondanità di raffinata discrezione.

Lo “stile Nobu”

La filosofia di cucina creata dallo Chef Nobu è unica, avendo saputo unire alle sue origini giapponesi influenze peruviane, ma anche tanti sapori e ispirazioni internazionali. I piatti iconici della cucina di Nobu sono ormai tanti: tra i più famosi, spiccano il Merluzzo nero al Miso, la Ricciola jalapeno e poi i ‘New Style’, gustosi Sashimi di tonno o salmone scottati con uno speciale olio bollente. Molti definiscono “fusion” le sue ricette, ma Nobu preferisce chiamare la sua cucina in “stile Nobu”. La tradizione giapponese è il fondamento dei suoi piatti ma a questo si aggiungono ingredienti e sapori di tutti gli altri cinque continenti. 

La mise en place - Ph. Claudia Calegari
La mise en place – Ph. Claudia Calegari

L’offerta gastronomica

Ed è proprio questa filosofia che ispira le creazioni uniche e originali dell’Executive Chef Antonio D’Angelo, alla guida del ristorante Nobu Milano dal 2009. La sua creatività e la sua sensibilità portano così in carta ricette esclusive che partendo dalla tradizione giapponese guardano alla tradizione italiana e partenopea come i Ravioli ripieni di Wagyu, la Cicala Dry Miso e la Palamita Poché.

La mia intervista ad Antonio d’Angelo

Antonio come ti sei avvicinato al mondo della cucina?

È successo un pò come succede nelle storie di molti chef. Io vengo da una famiglia per la quale il cibo è sempre stato molto importante. Quando ero piccolo per mia mamma il pensiero era cosa farci da mangiare a pranzo o a cena. In casa c’erano continuamente nuove ricette da assaggiare.

Antonio D'Angelo
Lo Chef – Ph. Claudia Calegari

Mio padre invece era un appassionato di materie prime: ad esempio nel periodo delle arance andava a scovare i produttori migliori e così per tutti gli altri prodotti che mia madre usava in cucina. Insomma la sua era una ricerca continua della materia prima buona. Io invece ero un grande mangiatore. Da li è iniziato il mio rapporto con il cibo e la cucina.

Quando è arrivato il momento di scegliere quale percorso di studi intraprendere, ho optato per l’alberghiero. Nel tempo sentivo che dentro di me la passione per la cucina stava iniziando a crescere fino al momento in cui mi fu chiaro che sarebbe stata la mia vita. 

Quali sono state le esperienze più formative?

Durante l’alberghiero noi ragazzi avevamo già iniziato a fare esperienza nei ristoranti. Per me tutte le mie esperienze sono state significative perché mi hanno aiutato a crescere ma sicuramente quella con Nobu ha cambiato per sempre le mie prospettive. Ho trascorso buona parte della mia formazione professionale a Brescia. Per dieci anni ho girato tra ristoranti stellati e non rimanendo però sempre fedele al mio obiettivo più grande in cucina: la ricerca della qualità, sia negli ingredienti sia nel mio lavoro.

Lo Chef Antonio D'Angelo - Ph. Claudia Calegari
L’intervista – Ph. Claudia Calegari

Poi dopo dieci anni ho ritenuto importante cambiare luogo. Sono approdato a Milano, lasciando un posto da sous-chef in un posto stellato a Brescia per un posto da capopartita all’Hotel Gallia a Milano. La voglia di crescere era molto forte ed ero disposto anche a questo. Poi da li mi fu fatta la proposta di andare a lavorare sulla barca del signor Armani (qui siamo nel 2003) per 15 giorni. Io ci pensai 3 secondi – ride – anche se lasciavo un posto sicuro per un qualcosa che avrebbe avuto un periodo di tempo determinato.

Li mi sono giocato le mie carte e ho dato tutto me stesso. L’equipaggio era davvero contento e riferirono tutto al Signor Armani. A settembre dello stesso anno, terminata l’esperienza sulla barca, fui chiamato qui da Nobu e mi fu fatta la proposta di venire a fare questa esperienza come capo partita. Era qualcosa di nuovo, una cucina totalmente sconosciuta. Ma anche in questo caso non ci pensai troppo e accettai. 

Antonio in precedenza avevi già avuto modo di avvicinarti alla cucina giapponese? 

Avevo assaggiato qualche piatto ed ero rimasto affascinato nonostante fossi legato alla tradizione. Della cucina giapponese mi avevano colpito la precisione, la semplicità delle esecuzioni, le tecniche: ad esempio la cottura tataki oppure la cottura istantanea con il cannello. Per non parlare delle modalità di conservazione del pesce. Uno spettacolo. 

Cosa ha significato per te conoscere Nobu?

Prima di conoscere lo “stile Nobu” ero molto tradizionalista, esisteva solo la cucina italiana per me.

Nobu Milano
Nobu Milano

Da quando ho conosciuto Nobu per me la cucina è il mondo intero. Io credo che lo “stile Nobu” sia una formula veramente vicina alla perfezione. Come noi italiani anche i giapponesi sono molto tradizionalisti e lui è riuscito a creare questa nuova filosofia che avvicina le culture sempre preservandole. Qui da Nobu Milano ad esempio c’è una forte influenza mediterranea, nonché campana. 

Cos’hai portato della tua esperienza personale?

Io ho voluto condividere i sapori e le materie prime della mia terra. Abbiamo una varietà immensa di prodotti che possono essere connessi con il mondo giapponese. Un esempio? I friarielli. Io li ho sostituiti agli spinaci nella ricetta oshitashi in accompagnamento al maialino. Oppure ho creato la pastiera di riso e la palamita poché in salsa unaghi.

Io dico sempre che la cucina giapponese ricorda moltissima quella italiana perché è ricca di tradizioni che si rispettano e che si tramandano. 

I Ravioli di Wagyu
Nella cucina dello Chef – Ph. Claudia Calegari

Si dice che nel 2000 l’apertura di Nobu Milano ha avvicinato i milanesi alla cucina giapponese, secondo te Antonio oggi il cliente che viene da voi cosa vuole?

Negli ultimi anni i clienti conoscono molto di più le materie prime e sono molto preparati. Ti faccio un esempio lampante. Noi qui usiamo solo il tonno Bluefin e io non posso nemmeno pensare di cambiarlo perché quando l’ho fatto i clienti me lo hanno contestato. Qui abbiamo una clientela di affezionati che viene anche tre volte a settimana e quindi sono molto esigenti. Abbiamo abituato i palati dei nostri clienti alla qualità. 

Nobu è sempre desideroso di assaggiare le nuove creazioni degli Chef che lavorano nei vari Nobu in giro per il mondo. Mi racconti qualche tuo Signature?

Sì è vero e questa è un’esperienza bellissima che si ripete molto spesso perché tutti gli anni ci troviamo per assaggiare le nostre nuove creazioni e capire se possono funzionare nel menù. Uno dei piatti che ho presentato è proprio il Raviolo di Wagyu, con parmigiano reggiano e cipolla caramellata alla soja. Dopo i vari viaggi che facevo con lui ho cercato di mettere insieme questi ingredienti. Volevo una vera e propria esplosione del quinto gusto, l’Umami (in lingua giapponese significa “saporito”).

In cucina - Ph. Claudia Calegari
Lo Chef Antonio D’Angelo – Ph. Claudia Calegari

Questo piatto lo troviamo anche nell’ultimo libro di Nobu nel quale ha raccolto tre ricette di tutti gli chef dei vari Nobu del mondo e il ricavato è stato poi devoluto in beneficienza. 

Cosa ami del tuo lavoro Antonio? L’ispirazione per i tuoi piatti da dove viene?

Che è sempre in continua evoluzione, c’è sempre da rincorrere qualcosa, è dinamico. Io non riesco a fare una cosa sola alla volta. Sono un uomo atipico. L’ispirazione invece proviene dal tragitto serale per tornare a casa perché vivendo a Brescia trascorro molto tempo in macchina e ho tutto il tempo per rivedere tutto ciò che succede durante il giorno e cerco di tirare fuori qualcosa. Poi ovviamente lo racconto ai miei ragazzi perché il nostro lavoro non è un lavoro del singolo ma è un lavoro di squadra. 

A un Antonio di vent’anni cosa diresti?

Di rifare al 70% quello che ha fatto Antonio fino ad oggi. Il resto magari lo avrei fatto con più testa. Io non lo nascondo. Chi fa questo lavoro desidera entrare nella Guida Michelin perché si tratta di un riconoscimento importante. Quindi probabilmente gli direi di lavorare di più per quell’obiettivo. 

Cosa vuoi trasmettere ai ragazzi che lavorano con te?

Io cerco di trasmettere la mia passione nei confronti del cibo e della cucina. È un lavoro che toglie tanto, la tua vita all’80% è lavoro. Trascuri un pò tutto il resto: la famiglia, gli amici, la vita privata.

I ravioli di Wagyu - Ph. Claudia Calegari
I ravioli di Wagyu – Ph. Claudia Calegari

Questo se vuoi arrivare ovviamente a dei risultati importanti. Il nostro orgoglio è che ogni anno facciamo dagli 80000 agli 85000 coperti. Questa è la nostra soddisfazione più grande perché vuol dire che qualcosa di buono facciamo.

Hai avuto modo di viaggiare tanto, secondo te quanto ha influito la cucina italiana qui e negli altri Nobu?

Tantissimo perché Nobu è un grande fan della cucina italiana. Ogni volta che viene dobbiamo portarlo nei ristoranti tipici. E questo vale anche per gli chef degli altri Nobu. L’influenza italiana c’è sempre. Vogliono sempre conoscere nuove materie prime da inserire. Noi siamo visti come un’ispirazione. 

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