Gli inizi
Quasi un anno fa, la Guida Michelin 2020, con l’assegnazione della terza stella al Mudec di Milano e della seconda al Glam di Venezia, ha sancito la supremazia di Enrico Bartolini nel mondo della ristorazione in Italia facendolo diventare, con un totale di ben 8 stelle Michelin, lo chef italiano più stellato del mondo.
Nato in provincia di Pistoia nel 1979, Enrico Bartolini ha conquistato la prima stella più di dieci anni fa, quando guidava Le Robinie in Oltrepò Pavese, e in pochi anni è stato l’unico nella storia della Guida Michelin a conquistare quattro Stelle in una sola edizione, quella del 2016.
Nel suo percorso professionale, meritano una menzione anche il Devero Ristorante e il Dodici24 Quick Restaurant a Cavenago Brianza, dove nel 2010 ad appena 33 anni, lo chef si guadagna la seconda stella Michelin e arricchisce i propri successi con le Tre Forchette del Gambero Rosso e i Tre Cappelli de l’Espresso.
Le avventure imprenditoriali
La ricerca di nuovi stimoli lo porta nel 2016 a Milano, dove apre il “Ristorante Enrico Bartolini” al terzo piano del MUDEC, Museo delle Culture.
Quello stesso anno inaugura il “Casual Ristorante” a Bergamo e prende in gestione i ristoranti “La Villa” e la “Trattoria Toscana”, rinominata “La Trattoria Enrico Bartolini”, dell’esclusivo resort “L’Andana”, a Castiglione della Pescaia, nel cuore della Maremma. Fino ad approdare a Venezia, dove dà vita al “Ristorante Glam”, nuova ed esclusiva meta gourmet della Serenissima. All’interno dello splendido Relais Sant’Uffizio a Cioccaro di Penango (in provincia di Asti), ex convento monastico del XVI secolo, la Locanda del Sant’Uffizio è l’ultima sfida imprenditoriale di Enrico Bartolini.
Va inoltre sottolineato che, oltre ad essere il primo chef italiano a vantare contemporaneamente 8 stelle Michelin, con la Guida Michelin 2020, Enrico Bartolini è riuscito a riportare dopo ben 26 anni le 3 stelle Michelin nella città di Milano.
L’intervista
Quando ti sei accorto di voler fare il cuoco?
Sinceramente non saprei rispondere a questa domanda perché da piccolo ero molto attaccato al lavoro che faceva mio papà, il calzolaio. Poi però mi sono reso conto che il mettere insieme degli ingredienti per fare ad esempio una crêpe mi dava soddisfazione e sentivo che potevo farlo bene. Mi sono iscritto alla scuola alberghiera pieno di dubbi perché non sapevo se potevo farcela. Solo negli anni ho capito che la più grande gratificazione ce l’hai solo se hai soddisfazione nel successo qualitativo di quello che tocchi, che non vuol dire che venga apprezzato per forza o che renda del denaro. Perciò se lo fai con il cuore poi le altre cose succedono da sole.
Con il tempo ho compreso che mi piaceva essere accettato dagli ingredienti come manipolatore e dalle persone che avevo intorno come responsabile. Poi ho iniziato a lavorare e mi sono reso conto che più sei autorevole e più sei comprensivo e dai energia e fiducia agli altri e più ricevi una performance qualitativa. Ho anche capito che non essere individualisti aiuta a fare un gruppo di lavoro più stimolante e si è ascoltati di fronte a degli obiettivi e che se uno per un’ora fa riposo non è uno scansafatiche che ha tradito il lavoro, ma che si è riposato per rendere meglio.
C’è stato un momento di svolta nella tua carriera?
Forse ho realizzato davvero cosa volesse dire fare questo mestiere durante la mia esperienza a Parigi. Fino ad allora ero un giovanotto che pretendeva l’organizzazione della brigata ed ero motivato solo se vedevo intorno a me venti persone che pedalavano dure a testa bassa rinunciando alla vita. La cucina non è così, dev’esserci disciplina, ma c’è anche il sorriso, l’educazione, l’amore per quello che si fa. E allora quando sono andato a Parigi ho visto tanti ristoranti lavorare in un posizionamento di lusso con tante persone pronte a vivere un’esperienza gastronomica. E mi veniva automatico guardare all’Italia che in quel momento, siamo nel 1999, non aveva tanti posti stellati.
Ero affascinato da Parigi, volevo starci, ma ad un certo punto mi ha preso la malinconia, ero troppo giovane per consolidare una carriera da responsabile in una città così in cui c’erano dei mostri della ristorazione. Per questo e altri motivi, sono rientrato e ho ricominciato il mio percorso andando da Alajmo. Anche se ero performante, in quel momento non avevo una guida e mi sentivo perso. Dopo tre anni mi ha cercato Coppola per aprire un ristorante nel suo bellissimo Chalet in Oltrepò Pavese e ho aperto Le Robinie a 25 anni.
Dove cerchi la tua ispirazione quando devi creare un nuovo piatto?
Non la cerco. Io credo che il ristorante è fatto di un percorso culturale ed emotivo e questo penso valga per tutti. Alcuni ristoranti riescono grazie alla perfezione dell’esecuzione sfiorata, perché non è mai totale, a generare un’atmosfera attraverso la quale è più facile condurre delle idee. Ma potrei dire lo stesso il contrario.
Ti dedichi ancora alla scoperta di prodotti come facevi in Oltrepò?
Il tempo è poco ma io voglio sapere che le cose che arrivano qui sono il frutto di una cultura che merita rispetto. Essere vicino ai contadini è importantissimo. In questo momento mi affido molto ad una persona che seleziona per noi gli ingredienti e riesce ad avere un relazione con tanti piccoli produttori in varie zone d’Italia. È una specie di fornitore con un’immensa sensibilità di palato.
Cosa diresti a un Enrico di vent’anni?
Davvero una bella domanda. Probabilmente ripeterei le cose che mi hanno detto le persone che mi hanno dato più stimoli. Io ho faticato ad avere delle guide, poi ho imparato ad averle e sono riuscito a fidarmi perché avevano molta più esperienza di me. Non è una consulenza, è una condivisione di esperienze. A esempio, un amico mi ha guidato verso i sapori di alcuni piatti che fanno grandi chef di cui lui è stato cliente. Lui mi ha insegnato l’importanza della piacevolezza di chi viene a trovarci e quindi ho capito che bisogna sempre cucinare per gli altri e non solo per se stessi.
Quali scelte, secondo te, hanno contribuito al conseguimento della terza stella?
Beh penso all’investimento fatto sulla sala e al raggiungimento dell’equilibrio della proposta in cucina. L’ultimo passo sono state le porcellane. Sembra assurdo, ma quando ho cambiato i piatti improvvisamente i miei occhi hanno individuato una linearità di stile che parte dalla cucina e arrivano alla sala. Ci siamo arrivati piano piano. E poi sicuramente la tenacia nello specializzarsi sugli ingredienti perché quando si aumentano i volumi la freschezza delle cose viene trascurata.
Ci sono alcuni piatti a cui sei particolarmente affezionato?
In primis, i Bottoni di olio e lime con salsa di cacciucco e polpo alla brace: è il primo piatto in cui la tecnica è fondamentale. È un piatto con straordinariamente equilibrato e coraggioso nei sapori e innovativo nella consistenza del raviolo: non è mai stato modificato.
La svolta sull’esercizio scolastico è stato sulla Sarde in Saor: un piatto che è partito da un’alice con la salsa blu e negli ultimi sette anni è cambiato forse venti volte. Ora è un piatto completo con una disciplina tecnica straordinaria. Può non piacere, ma è un antipasto dove ritrovo la cultura della cucina di pesce fatta da un cuoco creativo.
Infine, tra i recenti direi il Manzo: una carne cruda marinata servita con una gelatina ispirata all’aspic milanese, gelato alla senape e del caviale. L’insieme di questi ingrediente regalano un’esplosione di sapori ed è un carpaccio che non riuscirei a proporre in trattoria per la difficoltà di esecuzione.
A che punto sei della tua vita?
Non lo so, del domani non c’è certezza. Io mi sento acerbo in tante cose e francamente passo il tempo a fare il conto dei difetti. Cerco di anticipare le difficoltà ma non sempre ci riesco. Amo nutrirmi bene ed esagerare ogni volta che posso, ma moderatamente. Nel tempo mi sono convinto che volevo fare delle cose che poi sono successe e questa è una sensazione meravigliosa. Le stelle ci hanno dato un messaggio chiarissimo, cioè che siamo stati premiati per quello che stavamo facendo e quindi dovevamo concentrarci solo in questo. Se ti riesce bene qualcosa e te lo hanno detto, allora sei a cavallo.
Ora voglio consolidare il mio percorso e quello dei ristoranti che seguo, spiegando un altro concetto importante e cioè che il territorio deve essere sempre premiato dalla nostra presenza. La ristorazione ha un ruolo decisamente importante nel nostro paese e questo ruolo è il tessuto culturale non solo nostro e di chi mangia ma di tutta le persone che si specializzano per diventare cuochi e camerieri. Se la gente è disposta a fare chilometri per fare un’esperienza da noi, vuol dire che in qualche modo noi la condizioniamo ed è perciò necessario e imprescindibile carpire i valori del luogo in cui siamo presenti per poi trasmetterli.