Intervista a Ferdinando Palomba, Executive Chef dell‘Emporio Armani Caffè e Ristorante di Milano.
Inaugurato nel 2000, l’Emporio Armani Caffè e Ristorante di Milano è da vent’anni un punto di riferimento dei milanesi. Ampliato e completamente ripensato nel 2019 per diventare un luogo da vivere dal mattino fino a tarda sera, è il primo nel suo genere, e nella sua nuova veste diventa rappresentativo nel mondo. La novità testimonia ancora una volta il legame di Giorgio Armani con Milano, fatto di sentimenti forti, di gesti e iniziative importanti che di volta in volta valorizzano la città.
La nuova veste dell’Emporio Armani Caffè e Ristorante
L’Emporio Armani Caffè e Ristorante si sviluppa su due livelli: al piano terra si trova il nuovo grande bar caffetteria dove è possibile gustare e acquistare sia pasticceria fresca di produzione propria, sia prodotti Armani/Dolci by Guido Gobino. Al pranzo vero e proprio, con un variegato menu e proposte di light lunch, è riservata invece la parte adiacente al bar.

Al piano superiore troviamo il ristorante, aperto a pranzo e a cena, con un punto accoglienza ‘champagne bar’ all’ingresso. Seguendo il trend di lasciare a vista tutte le funzioni, la cucina è visibile grazie al vetro effetto sfumato. Sul fondo, la piccola sala, che all’occorrenza diventa privata, ha un’atmosfera intima e raccolta con il grande camino in marmo scuro. Il design è caratterizzato da linee e tinte morbide, grigio azzurro e verde salvia polvere, sui quali si posa la luce naturale, delicatamente schermata. Le pareti sono rivestite in prezioso tessuto di seta e incorniciate dal color champagne; i tavoli rettangolari lungo le pareti sono separati da piccoli schermi in vetro con un delicato motivo di palme, pattern tra i più significativi della collezione Armani/Casa.
L’offerta gastronomica
La cucina del ristorante e caffè è guidata dall’Executive Chef Ferdinando Palomba che con grande sapienza e un’esecuzione impeccabile, mescola la tradizione all’innovazione, proponendo un menù dai sapori mediterranei, dove semplicità e leggerezza danno vita a un gusto sofisticato e unico. La ricerca delle materie prime di altissima qualità, l’attenta preparazione anche delle proposte più semplici, la presentazione elegante ed essenziale e dei piatti, riflettono il piacere della tavola secondo Giorgio Armani e sono gli elementi che identificano e accomunano tutti i ristoranti Armani nel mondo.
La mia intervista a Ferdinando Palomba
Ferdinando, cosa ti ha spinto ad avvicinarti a questo lavoro?
Per rispondere a questa domanda devo partire delle mie origini. Io sono di Torre del Greco e ho sempre visto questo fatto come una grande fortuna perché la mia terra, trovandosi tra il mare e il Vesuvio, mi ha permesso di toccare con mano una grande ricchezza di materie prime: dai prodotti della terra di piccoli produttori al pesce del nostro mare. Poi se pensi a tutti i contatti che abbiamo avuto in passato con le altre civiltà (turche, greche, arabe, francesi e spagnole..), puoi immaginare tutte le influenze nella nostra cucina.

Mio nonno era agricoltore e allevatore ed era abbastanza conosciuto perché aveva un orto veramente grande vicino al mare e quindi lavorava una varietà incredibile di prodotti. Io quando ero piccino trascorrevo tanto tempo con lui all’aria aperta. Mi ricordo questa distesa immensa di basilico e quando fioriva il profumo era così intenso e il colore verde così sgargiante! Anche le melanzane, i pomodori…che colori meravigliosi. Io passavo il mio tempo ad aiutare il nonno e ad assaggiare i piatti della nonna e di mia madre. Il mio amore per la cucina è nato così.
E poi, cos’è successo?
Poi durante i periodi estivi iniziai a fare le prime stagioni nel ristorante “La casa rossa” di cui era socio mio padre. Lui si serviva sempre dai piccoli produttori e dal nonno. Grazie a questo ora riesco facilmente a capire se un prodotto è di qualità. E poi c’era il porto…andavamo a comprare i pesci direttamente dalle reti. Tutte queste cose ti portano ad appassionarti, è inevitabile. Quindi dopo il militare ho deciso di andare a Parigi per fare un’esperienza nel mondo della cucina. Ricordo che esplodevo dal desiderio di partire però allo stesso tempo ero in ansia perché non sapevo nulla, nemmeno dove avrei dormito. Mi hanno chiamato il venerdì e il lunedì sono partito. Io comunque di carattere sono molto impulsivo e quindi ho voluto cogliere questa opportunità.
A Parigi ci sono rimasto tre anni, a Le Royal Monceau: i primi sei mesi ho lavorato con Paracucchi e poi è arrivato lo chef Sergio Mei con Penati. In quel periodo avevo instaurato un rapporto bellissimo con tanti comis di altri ristoranti. Eravamo un gruppo davvero unito e ci trovavamo nel tempo libero per studiare i piatti degli chef. A volte andavamo a vedere i menù degli altri ristoranti e poi a casa provavamo a fare delle preparazioni utilizzando le tecniche francesi. Ognuno cucinava qualcosa e poi si mangiava tutti assieme provando queste ricette.

Io ricordo che mi ero davvero impegnato nella preparazione del tonno scottato perché vent’anni fa questo prodotto non era così usato e per me rappresentava una sfida. Volevo cucinarlo utilizzando alcune tecniche francesi per creare delle salse agli agrumi con sentori di finocchio. Sono stato sempre fiero e sicuro di questi piatti perché sono in grado di riconoscere le materie prime buone e questo è fondamentale.
Cosa ti porti da questi tre anni a Parigi?
L’entusiasmo che avevamo tutti quanti e la grande curiosità. Ci divertivamo sì, ma c’era sempre tanta voglia di imparare. Ricordo che si era creata questa unione tra tanti comis e da tutti imparavamo qualcosa perché avevamo una continua condivisione di idee. E poi eravamo a Parigi e ci sentivamo i re del mondo.
Ti si illuminano gli occhi. Mi hai fatto viaggiare con questi racconti. E poi dove sei andato?
Ho seguito lo Chef Mei al Four Seasons di Milano. In quel periodo ho potuto imparare moltissimo, sopratutto l’organizzazione e la precisione sul lavoro. Poi ho collaborato con Oliver Glowig del Capri Palace. Anche li mi sono trovato benissimo e ho capito quanto sia fondamentale essere disciplinati. Un esempio che rende chiara l’idea? Fino alle nove meno cinque potevamo bere il caffè, alle nove e un minuto dovevamo già coprire i ranghi – sorride-. Poi mi sono recato a Villa Torretta a Sesto san Giovanni e a Manerba al Ristorante Ortica. Ma questi erano già dei lavori veri e propri e non degli stages.
La tua prima esperienza da Executive Chef?
Ad Atene. Ho lavorato all’apertura del Paper Moon in centro ad Atene, in piazza Sintagma, e avevo sotto di me una brigata di diciotto persone. Avevo collaborato con gli stessi proprietari nel loro locale di Milano e poi ho fatto l’esperienza ad Atene. È andata molto bene, mi è dispiaciuto un pò lasciare la Grecia perché mi ero innamorata della cultura gastronomica che è ricchissima di prodotti, di ricette e di tecniche. Adesso finalmente si stanno facendo un pò conoscere a livello mondiale.

Infine la svolta qui all’Emporio Armani Caffè e Ristorante nel 2008. Mi sono proposto all’ex Executive Chef di Nobu, Soriano Meloni. Quando mi ha chiamato mi sentivo volare. Ero entusiasta, agitato ma allo stesso tempo sicuro di me. Insomma, emozionato. Io ho iniziato come suo assistente e curavamo le aperture degli Emporio Armani Caffè nel mondo. Questo mi ha permesso di girare molto, da Mosca a Istanbul, da New York a Santiago.
Qual era l’obiettivo della cucina in quel momento?
L’obiettivo era di eliminare l’eccesso e arrivare all’essenziale. Volevamo creare delle ricette pulite, dirette, con pochi ma buoni ingredienti. Il filo conduttore era l’italianità. I nostri piatti dovevano essere semplici, di facile esecuzione e riproducibili nelle cucine degli Emporio Armani Caffé di tutto il mondo. Per noi era importante seguire la stagionalità e che i prodotti fossero italiani: l’olio, i pomodori, il prosciutto… Per questo motivo oltre a dedicarci alla creazione dei menù, supportavamo gli chef nella ricerca delle materie prime.

Poi nel 2010 abbiamo inaugurato la nuova era dell’Emporio Armani Caffè qui a Milano. Era tutto nuovo e io gestivo la cucina. Abbiamo portato avanti sempre la nostra filosofia: questo doveva essere un locale pilota, un punto di riferimento per gli altri locali nel mondo. La cucina doveva essere italiana, non volevamo confonderla con altre culture. Ad esempio avevamo lanciato l’idea di un aperitivo che ogni settimana proponeva piatti ispirati alle diverse regioni italiane.
Negli ultimi anni hai collaborato anche con Gennaro Esposito. In che modo?
Sì, con Gennaro ho portato avanti due anni di collaborazione tra stages e alcuni eventi. Ad esempio sono stato invitato a “Festa a Vico” come giovane emergente. È stata un’esperienza formidabile perché ho avuto modo di riprendere in mano le mie origini e ritrovare quei profumi e sapori del Sud Italia e del Mediterraneo che tanto amo.
Volevo arrivare proprio qui. Tu descrivi la tua cucina con l’aggettivo “mediterranea”? Cosa vuoi dire?
Vuol dire cucinare le materie prime di questa “area geografica”. Prendo spunti dalla tradizione italiana, greca, turca, spagnola, e francese utilizzando tecniche sia europee ma anche internazionali. Ad esempio penso all’esperienza a Dubai in cui ho imparato delle tecniche che si avvicinano molto alla cucina del Sud Italia. Oppure mi ispiro ad alcuni piatti di altre zone del Mediterraneo e li ripenso per renderli più adatti alla nostra clientela. Pensiamo al Babaganoush, la melanzana affumicata condita con peperoncino e aglio: io lo trovo un piatto molto ricco però ad esempio uso delle tecniche francesi per renderlo adatto ai nostri palati.
Quando hai trovato questo equilibrio?
L’ho trovato qui all’Emporio Armani Caffè e Ristorante perché c’è un continuo scambio di opinioni con i clienti. Esco spesso in sala per avere un loro parere: per me è importante sapere cosa pensano dei piatti e capire se c’è qualcosa che non funziona. Io parto da un’idea di buono che mi deve piacere, poi però cerco di capire come avvicinare questa idea al gusto del cliente che viene da noi perché alla fine non dobbiamo dimenticare che noi cuciniamo per loro.

Il cliente che viene a mangiare da noi ha già un’aspettativa molto alta: vuole il buono, la costanza, l’essenziale. Le persone ora sono preparate, c’è tanta informazione. Un cliente che gira tra i vari ristoranti riesce a fare un confronto e sa cosa vuole. E per me è fondamentale conoscere la loro opinione.
Un piatto che rappresenta questo equilibrio? Ma anche i sapori della tua infanzia?
Il Polpo affogato. Un piatto a cui tengo in modo particolare perché quando l’ho immaginato mi sono visto quando ero piccolo che scorrazzavo nell’orto del nonno. Oppure i Maccheroni con una genovese di anatra e tartufo nero.
Tu sei la persona che sei oggi grazie anche all’aiuto delle persone che ti sono state vicino nel tuo percorso da chef. Dalla famiglia ai diversi mentori conosciuti in giro per il mondo. In che modo restituisci questo dono con i ragazzi della tua brigata?
Questo è davvero un pensiero importante. L’esperienza è anche questo: la fortuna di conoscere e collaborare con delle persone molto brave. Io mi ritengo fortunato. Per questo motivo per me è fondamentale trasmettere quotidianamente i valori che nel tempo ho fatto miei: ad esempio l’organizzazione e la puntualità, ma soprattutto l’entusiasmo. Cerco di spronarli ad essere curiosi e stimolati. Cerco di insegnare loro l’importanza di avere un contatto diretto con i fornitori perché è fondamentale capire da dove provengono i prodotti per assicurarsi una qualità ad ogni costo. La qualità degli ingredienti è ciò che mi ha fatto innamorare di questo lavoro da piccolo e non sono disposto a scendere a compromessi.